Durante la notte un Battaglione sloveno fu mandato all’attacco per riprendere la cima perduta [del Monte San Gabriele, NdC] al mattino ed aprirsi la strada verso Gorizia. Gli attaccanti furono avvistati per puro caso (un Marò era uscito dalla postazione per orinare) e favoriti dal buio, da una leggera nebbia e dalla neve che tutto ovattava, erano ormai arrivati a ridosso delle nostre postazioni. Scoperti, cercarono di far credere di essere tedeschi ma il lancio di un razzo il cui colore non coincideva con gli accordi di riconoscimento e soprattutto la parlata slava, tolse ogni dubbio e le nostre armi aprirono il fuoco [una delle prime armi a sparare fu una Breda 37 della Squadra Betti, azionata dal Marò Mitragliere Giulio Ronchi, seguita subito dalle altre "pesanti", NdC] . Fortuna volle che le prime raffiche di una nostra mitragliatrice centrassero in pieno il Gruppo di Comando che guidava l’attacco, uccidendo il Comandante, il suo Vice, il Commissario politico ed altri cinque graduati in sottordine, rendendo acefalo il reparto attaccante e quindi, privo da quel momento di ordini adeguati alla situazione. Ciononostante il fuoco nemico, molto nutrito, avvolse tutto il nostro schieramento, arrivando a colpire, sul fianco scoperto verso il San Daniele, la Compagnia Mortai da 81. Nel tentativo di portare un’arma al coperto morì il Sottocapo Chiesa, abbracciato al mortaio, mentre il Tenente Piccoli cadde eroicamente mentre guidava il Reparto al contrattacco. Il combattimento si protrasse fino alle prime luci dell’alba, quando gli avversari si ritirarono portandosi via anche i caduti, come era loro abitudine. Restarono solo quelli dello staff che furono trovati allineati nell’ordine di marcia a pochi metri dalla nostra postazione. Appena sorse il sole, la 4ª Compagnia Mortai, unica ad avere subito perdite, poté vendicare i suoi caduti, usando i dati di tiro preparati dal loro eroico Tenente, per centrare con ripetute salve i partigiani in movimento di ritirata nella sottostante pianura innevata e quindi ottimo e facile bersaglio. Intanto a Tarnova il “Fulmine”, in un rapporto di forze di uno contro dieci e con i suoi scarsi mezzi di difesa, aveva eroicamente combattuto sino all’ultimo uomo ed all’ultima cartuccia, soccombendo alla fine solo per l’esaurimento delle munizioni. I pochi superstiti, riuscirono a spezzare l’accerchiamento e, utilizzando lenzuola prese nelle case per mimetizzarsi sulla neve, ad attraversare l’altopiano innevato e scendere incontro alle nostre colonne che ormai, sfondato il fronte nemico, marciavano su Tarnova, rinforzate da reparti tedeschi che, finalmente, avevano deciso di muoversi. Così fallì l’ambizioso piano del IX Korpus, vanificato quasi esclusivamente dall’eroismo dei Marò della Xª che, “Fulmine” in testa, in una situazione, per loro così nuova e difficile, seppero dare prova di grandi virtù guerriere, fino al dono supremo della vita, offerta con slancio e senza esitazione. Entrati in Tarnova, recuperammo le salme dei nostri Caduti che erano state gettate in fosse comuni, assieme ai morti avversari e le riportammo a Gorizia (oggi riposano nel suo Cimitero e noi superstiti, ad ogni anniversario, andiamo a ricordare ai vivi il perché del loro olocausto e le sue conseguenze preziose ai fini della salvaguardia e conservazione all’Italia di quella città). Ai funerali, svolti in forma solenne a Gorizia, parteciparono i familiari del Sottotenente Piccoli che, con l’autovettura del Comandante ed un viaggio notturno pieno di peripezie andai a prendere a Mestre. Successivamente i “suoi” Marò, scorta d’onore, ve lo riportarono ed oggi le sue spoglie riposano nella tomba di famiglia a Vicenza.
Dal diario del Sottocapo A.U. Marco Pittaluga,
4a Compagnia Mortai
[…] L’ho visto il giorno dopo, Chiesa, che era troppo alto e troppo coraggioso, per quella notte tremenda, l’ho rivisto con l’elmetto bucherellato e la barbetta che sembrava troppo nera per un viso così bianco, e non era più il Chiesa allegro e burlone, con cui andavo così d’accordo. Era un essere rigido, ligneo, triste, di cui si diceva con mormorii ammirativi, intorno: “È un eroe, è morto da eroe, avviticchiato al bipede del mortaio, che voleva salvare ad ogni costo…”. Bisogna portare il tubo, ora, giù alla postazione. Ma pesa, e si esita a correre sul terreno scoperto, luccicante, con quell’impaccio; è così confortante il riparo di quel muretto, così incerto, il balzo in avanti. Sono spronato dal disgusto che mi ispira la nostra vigliaccheria collettiva, perché nessuno si muove, ed ho il terrore di dovermi, un giorno, vergognarmi di me stesso. È lo stesso stato d’animo che a Roma mi mise in lista, con pochi, per il ritorno in linea; e che sempre mi ha accompagnato nei momenti più brutti. Così piglio il tubo a mezzo e via, verso la postazione. Cammino a fatica, sprofondando, cadendo, piangendo contro voglia lacrime amare, senza singhiozzi, di rabbia e di disperata impotenza a superare gli ostacoli, a fare più in fretta. Mi raggiunge il Tenente Tajana. Dice poche parole, superandomi, senza fermarsi: “Coraggio, è morto il Tenente Piccoli… bisogna vendicarlo…”. Mi tremano le gambe, ora, non dico niente, ma inciampo più di frequente, perché forse qualcosa mi annebbia gli occhi… Ecco il dolore vero, quello che piega anche la resistenza dei più forti, che fa disperare dell’avvenire, ma che incita anche alle cose più difficili e sublimi… E nella voce del mortaio, che desta gli echi delle valli dove l’alba incomincia ad arrossare la neve, nell’attitudine degli uomini oppressi da un dolore che li ha colpiti in pieno, nella voce che sembra cambiata della mitraglia che ha continuato a sparare, si riconoscono gli accenti di una stanchezza mortale, che non è data da circostanze materiali, ma dalla coscienza della gran perdita subita.
Lettera del Sergente Leonardo Di Bari, Btg. Barbarigo,
al Tenente Colonnello Domenico Piccoli
M.V., 3/2/1945 XXIII
Sig. Piccoli,
I Marò del Barbarigo, commossi, ringraziano e ricambiano gli auguri. Come non abbiamo dimenticato le eroiche gesta del G.M. Alberto Piccoli, tantomeno dimentichiamo il v. gentile pensiero al nostro riguardo. Tutti conoscevamo il Sig. Piccoli vero tipo d’ufficiale repubblicano, pieno di fede e coraggio, ricordo in particolare una sera: mentre si tornava da Slappe, si trattava di 28 Km. a piedi, lui più volte malgrado le proteste dei suoi Marò si caricò sulle spalle il tubo del mortaio e la piastra dello stesso, quindi chi può dimenticare? Ci sarebbero tanti atti di bontà, prove di coraggio e sprezzo del pericolo a suo riguardo, la medaglia d’argento se l’ha ben guadagnata. La sua scomparsa ha causato un vuoto in noi tutti, ma nel nostro cuore è sempre “Presente” affinché ci guida alla sua vendicazione, e difendere il sacro suolo della nostra cara e amata Patria, quella Patria che purtroppo molti italiani non concepiscono il significato, e perché siamo i veri figli di “Mussolini”, che abbiamo giurato per la vita o morte per la nostra causa il Fascismo. Io sono da 8 anni in servizio e non sono stanco, spero fra giorni poter raggiungere il Btg. al fronte. Fervidi auguri da noi tutti e cordiali i Marò del “Barbarigo”.
Italia! Duce! Decima!
Serg. Di Bari Leonardo
Ospedale Militare
Mirano Veneto
Testimonianza del Marò Mario Fusco,
4a Compagnia Mortai
Subito dopo l’attacco laterale [gli slavi attaccarono frontalmente, dove furono bloccati dal fuoco dei mitraglieri delle Breda 37, e sul retro del fianco destro dello schieramento del Barbarigo, ove era posta la Compagnia Mortai, NdC], quando già in cielo c’erano i primi bengala, ripresomi dalla sorpresa mi venne spontaneo sparare alcuni colpi di 91 verso gli attaccanti. Poi mi apparvero una enormità di proiettili traccianti e sembravano proprio tutti diretti contro di me personalmente! Sul momento abbassai la testa nella neve gelata… ed in quel momento mi sentii toccare la spalla. Era Piccoli che, con il suo solito sorriso (e purtroppo, pur restando chinato, piuttosto incurante dei traccianti e non traccianti) mi disse all’orecchio: “Che fai? Ti stai scavando da solo la fossa?”. Infatti, non so come, sulla neve c’era la forma del mio corpo, testa e fucile compresi, come se avessero dovuto fare un calco. “Va bene” − mi disse, sempre sorridendo, mentre intorno a noi c’era il finimondo − “vienimi dietro assieme agli altri che troveremo più giù e che ci aspettano. Sta attento a non rimanere isolato”. Si alzò del tutto e ricominciò a scendere lungo la dorsale, ed io dietro. Ero pur sempre impaurito perché le cose non si stavano svolgendo secondo le mie previsioni (non mi ero mai trovato accerchiato con il mio reparto) ma ero rassicurato dalla presenza di Alberto, che avrei comunque seguito in capo al mondo. Raggiungemmo un gruppo di 20 o 30 marò in fondo all’erta, quasi al pianoro di metà monte, e da lì partimmo − in tre squadre − al contrattacco. Io rimasi sempre insieme a Piccoli. Sino alla cima. Ci conduceva velocemente su per l’erta sul versante est, sparava e ricaricava il suo MAB, si voltava per controllare gli uomini, rincuorava, ordinava qualcosa (per esempio, verso la cima, quando si accorse che le retrovie slave avevano fatto in tempo ad attestarsi nelle vecchie trincee, ci condusse sotto e lanciò e fece lanciare una bomba a mano a testa, dopo aver raccomandato di fare l’ultimo balzo dopo aver sentito lo scoppio delle bombe). Nel frattempo aveva mandato due marò ad avvertire che dalla linea difensiva della sera precedente non sparassero nella nostra direzione (e lo stesso aveva fatto prima di passare − inseguendo gli slavi − al piccolo avamposto); stava sempre avanti a tutti, si alzava per primo per correre avanti. Prima dell’ultimo balzo e delle istruzioni relative, aveva fatto scorrere l’ordine di attestarci nelle trincee al posto degli slavi non appena ci saremmo arrivati, e di continuare il fuoco tenendo la posizione ad ogni costo. Lungo la salita aveva lasciato dei piccoli presidi verso est-sud/est. Sembrava eccitato e, direi quasi, felice: la “prova del fuoco” lo rendeva sicuro di sé, gli dava energia: quando si lanciava avanti − in salita sempre − gridava e noi si gridava con lui “Decima! San Marco! Italia!”… qualcuno parolacce o purtroppo anche qualche “moccolo”. Io gridavo con loro e mi raccomandavo alla Madonna, ma seguivo sempre Alberto, sparavo, facevo tutto quello che vedevo fare a lui o quello che diceva, passavo parola. Dopo aver lanciato anch’io la mia bomba come gli altri, appena vidi a sinistra Alberto alzarsi e correre avanti in salita, feci altrettanto, e gli altri a destra e sinistra, lo stesso. Urlavamo tutti come pazzi e qualcuno sparava anche. Poco prima di entrare urlando anch’io come un pazzo in una delle trincee che erano quasi sulla cima, verso est, vidi in un lampo Alberto cadere mentre correva [in realtà il Tenente Piccoli perse la vita poco dopo, mentre aveva raggiunto le posizioni dei Fucilieri, accanto alla buca del Marò Silvio Lenardon, NdC].
Guardiamarina Alberto Piccoli (S.Ten. Alpini)
Nato il 10 novembre 1922 a Vicenza, dopo aver conseguito la maturità classica si iscrisse alla facoltà di Architettura. Arruolatosi volontario negli Alpini al compimento dei diciotto anni, fu assegnato al 7° Reggimento Alpini. Frequentò le Scuole militari di Belluno, Asiago e Aosta. Sottotenente, fu inviato sul fronte francese. Dopo l’8 settembre 1943, fu inviato alle Scuole di Guerra di Faenza e Alessandria. Si presentò volontario alla Decima MAS, e fu assegnato al Btg. Barbarigo quale vice-comandante della 4a Compagnia Mortai. Nei combattimenti del Battaglione nel Goriziano, Piccoli si distinse durante la battaglia di Chiapovano il 23 dicembre 1944, individuando le sorgenti di fuoco nemiche e facendole battere efficacemente dal fuoco dei suoi mortai. Cadde in azione sul San Gabriele il 20 gennaio 1945, alla testa dei suoi uomini, conducendo un contrattacco. Decorato della Croce di Ferro di Seconda Classe, fu proposto per la concessione sul campo della Medaglia d’Argento al V.M. alla Memoria: purtroppo, il precipitare degli eventi bellici e la conseguente tragica situazione dell’aprile del 1945 non ne consentirono il conferimento definitivo. Segue la motivazione della proposta:
Egli, nella notte del 20 gennaio del 1945, sulla cima innevata del San Gabriele, incitando i suoi marinai con le parole e con l’esempio, resistette per molte ore ai violenti e reiterati attacchi di una intera brigata partigiana slovena. Infine, alla testa del suo reparto ed incurante del pericolo, con rapido movimento, si slanciò sul fianco del nemico, contribuendo validamente a determinarne la ritirata. Colpito al petto nella fase finale del combattimento, spirò con il sorriso sulle labbra ed il suo sangue, arrossando la bianca coltre della vecchia trincea, scavata nella prima guerra mondiale, si aggiunse a quello versato dai Padri per la conquista della stessa Cima. Fulgido esempio di dedizione totale alla Patria adorata, immolò la sua giovane vita affinché Gorizia fosse per sempre italiana.
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