lunedì 4 febbraio 2008

L'ultima battaglia


Pierluigi Tajana, secondo da sinistra, in Grecia nel 1941.


Un mortaio da 81mm della Decima sul fronte Sud, 1945.

Capitolo tratto da "Il Bocia va alla guerra", le memorie di Pierluigi Tajana, 4a Compagnia Mortai, Btg. Barbarigo.

Fronte sud, aprile 1945

Trascorsi il mese d’aprile come un sonnambulo, di giorno, spostandomi dal Battaglione alle postazioni dei mortai, di notte, al comando tedesco per informarli della situazione dei mortai e ricevere eventuali nuovi ordini. In pratica non dormivo mai e sarei crollato se, malgrado lo strombazzamento radiofonico, non fosse giunto l’ordine di ripiegare. Eravamo tutti stupiti dalle tattiche tedesche. Combattevano di notte, con la loro “sega di Hitler”, ossia la mitragliatrice Maschinengewehr 42, o con il terribile Panzerfaust, arma anticarro distruttiva, leggerissima, che poteva essere data in dotazione al militare in pattuglia. Ciò che era ancora più sorprendente era la serietà e la disciplina con cui affrontavano ogni avvenimento. Quando tornavano dopo un’azione, avevano spesso con sé i feriti che non si muovevano finché non avessero ultimato il rapporto, poi finivano in barella e potevano essere inoltrati negli ospedali da campo. Fortunatamente alla nostra Compagnia non venne mai ordinata un’azione di pattuglia; avevamo un armamento troppo inadeguato. Ci eravamo liberati dei mitra totalmente inservibili e li avevamo sostituiti con fucili, meglio se tedeschi, come il famoso Mauser, dal suono caratteristico come il Ta-Pum austriaco. Il nostro ’91 aveva invece un suono molto secco. La mitragliatrice Maschinengewehr 42 aveva un urlo lacerante che faceva paura. Era chiamata la sega di Hitler, perché aveva una celerità di tiro tale da segare un albero. Ogni arma aveva un suono diverso. Comin-ciammo a ritirarci, ma i nostri automezzi erano per lo più inutilizzabili a causa dei bombardamenti, quindi, per non portare tutto a spalle, fummo costretti a requisire dei carri che erano trainati da mucche perché cavalli e buoi in Polesine non esistevano più. Eravamo proprio l’armata Brancaleo-ne, ma più ci ritiravamo più ci armavamo, raccoglievamo armi da tutte le parti e ormai possedevamo un buon numero di Maschinengewehr e Pan-zerfaust. Ci ritiravamo in perfetto ordine, malgrado l’inesistenza dei mezzi di trasporto. Una mattina, all’alba, fummo individuati da una squadriglia di caccia, che mitragliò la nostra colonna. Fortunatamente li scorgemmo per tempo, i Marò riuscirono a salvarsi, ma le povere mucche furono maciullate. Fu la manna per i contadini del posto che non vedevano carne da un bel po’ di tempo. Ci ritiravamo sulla direttiva Massa Lombarda, Valli di Comacchio, Codigoro e Ariano. Dovevamo attraversare il Po. Era tutta un’incognita perché i ponti di barche erano stati distrutti. Sapevamo che esistevano barconi privati, ma nessuno ci dava indicazioni ed i proprietari erano irreperibili. Senza l’abilità dei miei marò liguri, maestri d’attività marinare, con alla loro testa Giussani, ci saremmo dovuti fermare. Essi furono sguinzagliati alla ricerca d’imbarcazioni, e il primo ad arrivare fu proprio Giussani, che cominciò a trasbordare le armi, poi arrivarono anche altre barche. Io fui l’ultimo a compiere la traversata. Avevamo gli Alleati alle calcagna, ma non si avvicinavano tanto da poter essere sotto tiro. In fondo il sogno d’ogni co-mandante è vincere la guerra senza subire perdite. Gli Alleati se lo potevano permettere! Eravamo sfiniti ed affamati quando giungemmo presso Adria, dove svegliammo il podestà e pretendemmo un pasto caldo. In quel modo ci rifocillammo e potemmo riposare dodici ore. Avevamo ricevuto l’ordine di ripiegare a Padova e da li raggiungere Vicenza e Thiene. A quel punto avremmo dovuto attraversare anche l’Adige; speravamo che il ponte a Cavarzere, pur terribilmente danneggiato, per-mettesse ancora il transito, in caso contrario sarebbero stati guai seri. Le truppe Alleate avevano sfondato un po’ dappertutto; in effetti non si pote-va parlare di sfondamento perché in quelle ore i tedeschi, prima di noi, avevano saputo che il Generale Wolff si era arreso a Milano, quindi si ri-tiravano con la massima celerità verso nord, lasciando sguarnite le linee di difesa. Contro di noi era schierata l’8a Armata inglese con elementi ne-ozelandesi ed anche reparti del Corpo di Liberazione italiano, i cosiddetti cobelligeranti. Era il 26 aprile e nessuno di noi sapeva che il 25 era stata firmata la resa di Graziani, e che Mussolini e molti gerarchi erano stati fucilati. Di strano c’era solo il fatto che durante la notte tutti i paesi del Polesine brillavano di luce. Per loro non esisteva più l’oscuramento. Noi eravamo giunti ormai a Cavarzere con grosse difficoltà e speravamo che il ponte fosse agibile. Il pericolo era costituito dall’aviazione, poiché gli Alleati avevano cessato il fuoco con le artiglierie. Ci separava dall’Adige solo un lungo rettilineo, ma ad un tratto vedemmo profilarsi le sagome di due grossi mezzi corazzati nemici. Tememmo l’accerchiamento. Diedi subito l’ordine di gettarsi al riparo dell’argine, che, fortunatamente, fian-cheggiava la strada, e feci aprire contro i carri tutto il fuoco possibile. Sa-ranno stati più di cento fucili ’91 e Mauser, qualche mitragliatrice e Ma-schinengewehr, purtroppo con scarso munizionamento. I mortai non era-no invece a disposizione. Fu comunque un fuoco impressionante come intensità e precisione. Certamente i proiettili non forarono le lamiere dei corazzati, ma li indussero ad allontanarsi con la massima celerità. Si levò un grido di esultanza. Diedi immediatamente l’ordine di proseguire con la massima velocità. Assistette a questa nostra fulminea reazione il coman-dante Di Giacomo, dal quale dipendeva tutta la Xa su quel fronte. Ci fece un elogio sperticato. Il ponte era fortunatamente praticabile, anche se con difficoltà e in fila indiana. Trasportammo tutto l’armamento possibile, compreso il munizionamento. Dovemmo abbandonare però parecchio materiale. Eravamo, in ogni caso, un reparto efficientissimo ed oltremodo disciplinato. Era la mattina del 28 aprile e proseguimmo alla volta di Conselice. Facemmo una breve sosta e raggiungemmo Albignasego. Capimmo che qualcosa era cambiato perché la poca gente che c’era lungo la strada ci guardava come se fossimo dei pazzi. Vedemmo sul ciglio della strada dei civili morti e pensammo ci fosse stata qualche rappresaglia, ma l’unico nostro scopo era ormai raggiungere Thiene. Eravamo ormai fuori dalla realtà, ma per noi nient’altro aveva importanza. Arrivò una macchina con un’enorme bandiera bianca. Erano dei borghesi, con un tedesco della Wehrmacht, che volevano discutere con chi ci comandava. Il comandante Di Giacomo li ricevette. Si presentarono come rappresentanti del Comitato di Liberazione di Padova, il famoso C.L.N., di cui non conoscevamo neanche l’esistenza. Chiesero che venissero deposte le armi e che accettassimo di arrenderci. Di Giacomo rifiutò il loro ultimato ed affermò che se entro mezz’ora non se ne fossero andati avrebbe attaccato le loro postazioni fuori Padova e avrebbe proseguito. Dissero che a Padova c’erano già truppe inglesi, ma Di Giacomo, che non mollava, rispose che avevamo attorno le truppe inglesi già da un po’, e che la cosa non ci intimoriva. Stava ormai per scadere il tempo, quando comparve un’altra auto con una bandiera bianca; questa volta erano inglesi. Il colloquio si protrasse a lungo e ci venne comunicato che Graziani aveva già firmato la resa da tre giorni e che Mussolini era stato fucilato. Di Giacomo radunò noi Ufficiali e si decise che ci saremmo arresi, con l’onore delle armi promessoci dagli inglesi. L’Ufficiale, che parlava abbastanza bene l’italiano, ci disse di ammirare la nostra Divisione, poiché era l’unico reparto che si era presentato perfettamente armato ed inquadrato e ricordò che a Tobruk, in Libia, aveva fatto parte della guarnigione inglese che si era arresa agli italiani, da cui aveva ricevuto l’onore delle armi. La loro fierezza era stata pari a quella che stavamo dimostrando noi. Era ormai l’imbrunire e c’invitò a riunire i nostri reparti in un prato vicino al ponte di Bassanello, in località Pra’ della Valle. Alle prime ore del mattino avremmo dovuto raggiungere Padova per la resa e per essere riconosciuti prigionieri di guerra alle dipendenze delle truppe inglesi. Il comandante Di Giacomo ci fece un commovente discorso e disse che quello non era 1’8 settembre, che la guerra era ormai finita per tutti, e di essere fieri di essere appartenuti alla Xa MAS. Finimmo con il grido “Decima marinai!”, “Decima comandante!”. Quella sera la Xa era “rientrata in porto” con l’onore delle armi. Fummo tutti presi da un’immensa tristezza. Ero assillato da un dubbio tremendo: secondo il codice d’onore militare esiste l’obbligo, sia per un soldato semplice che per un ufficiale, di non farsi prendere, quando é possibile, prigionieri. D’altra parte avevamo assicurato all’Ufficiale inglese che saremmo rimasti uniti e preparati per il giorno successivo per consegnarci ai comandi inglesi a Padova. Non sapevo co-me comportarmi. Del resto tutte le forze armate italiane si erano arrese, il governo italiano non esisteva più. Mussolini era stato fucilato. Se fossi scappato, dove sarei potuto andare a finire e cosa sarebbe successo ai miei Marò. Decisi di rimanere ed accettare quello che la sorte mi avrebbe pro-spettato. Non fu una notte felice. La 4a Compagnia aveva uno stendardo. Lo dividemmo in tanti pezzetti in modo da poterli distribuire ai centotren-ta, centoquaranta superstiti. Sono riuscito a conservare quel pezzetto di stoffa, malgrado tutte le traversie subite durante il periodo di prigionia. Lo possiedo ancora e quando mi capita fra le mani, si scatena nella mia mente un fiume di ricordi che mi fanno domandare: “Se un giorno mi trovassi nelle stesse condizioni di allora, e senza le conoscenze di oggi, come mi comporterei?”. La risposta é sempre la stessa; farei le stesse cose di allora. Sono certo che se avessi seguito un’altra condotta la mia co-scienza ne sarebbe stata scossa. Dormimmo poco quella notte, naturalmente eravamo all’addiaccio. Il cielo era pieno di stelle, faceva molto freddo, tanto che eravamo costretti a corse e movimenti continui per cercare di scaldarci. Venne l’alba. Cominciammo subito a riordinare i reparti, volevamo raggiungere Padova in pieno assetto di guerra e tutti sentirono questo dovere, tanto che, lungo la strada, i reparti perfettamente allineati marciavano a passo cadenzato e la gente si affacciava alle finestre e si chiedeva chi fossimo. A Padova qualcuno ci applaudì. Ci portarono nel campo sportivo e ci avvertirono che dopo poco avrebbero distribuito la razione giornaliera di vettovagliamento. Eravamo affamati perché da più di un mese i viveri erano scarsissimi e da più di due giorni quello che riu-scivamo a mettere sotto i denti era tanto poco che serviva solo ad acuire la fame. Arrivarono camion pieni di ogni ben di Dio: scatole di corned beef, carne rossa e filamentosa che vorrei trovare ancora oggi sul mercato, marmellata, pane a volontà, bianchissimo, in pagnotte da mezzo chilo, the, zucchero, biscotti eccellenti. Tutte cose che noi non avevamo mai visto. Pensammo che, malgrado tutto, eravamo capitati in un Eden. Ci precipi-tammo sopra questo Bengodi come avvoltoi, e ci accorgemmo ben presto che la fame da tempo patita aveva ridotto le nostre possibilità di capienza di cibo. Tutto era buonissimo, ma serviva più agli occhi che allo stomaco. Ci disinteressammo tanto di quella profusione e fummo tanto malaccorti che durante lo spostamento alla caserma di Santa Giustina, nel centro di Padova, non ci si preoccupò di portare con noi niente, confidando che l’esercito inglese avrebbe mantenuto quello standard di trattamento. Non c’eravamo resi conto che il primo reparto che ci aveva preso in consegna era combattente, mentre il secondo aveva quella mentalità gretta e mer-cantile dei reparti di sussistenza. Quanto odiammo quei figli di buona donna! Quanto avremmo voluto ripagarli in egual misura! Una volta ritornato in Italia, venni a sapere che un ex Marò, trovandosi molti anni dopo a Venezia, ed avendo individuato un pullman di turisti inglesi, per vendicarsi, facendosi passare per un archeologo, si mostrò disponibile ad accompagnarli ad Aquileia, per fare visitare loro i ruderi di quell’antica civiltà. Fece fare loro parecchi chilometri, e, sull’imbrunire, li condusse a piedi in una boscaglia da cui difficilmente si sarebbero potuti districare. Li piantò lì, sicuro che fino al mattino non sarebbero stati capaci di andarsene. Cosi avvenne e la magra vendetta venne consumata. Alla caserma di Santa Giustina pensammo che gli inglesi ci avrebbero lasciati in mano al C.L.N., con tutti i nostri reparti. Radio fante ci fece sapere che la nostra sorte sarebbe stata l’immediata fucilazione degli Ufficiali e il processo per i soldati. Fortunatamente, quei figli di buona donna degli inglesi esaltavano, quando faceva comodo a loro, il senso dell’onore e non si sentivano, dopo averci accordato l’onore delle armi, di consegnarci a quelle belve scatenate. Ignorarono completamente il Comitato, fecero arrivare le loro camionette e ci trasportarono verso sud. La folla radunata, vedendosi privata di uno spettacolo avrebbe dovuto iniziare con la nostra consegna al C.L.N., ci gratificò con tutti gli epiteti più oltraggiosi cercando anche di avvicinarsi alle camionette, ma noi non stemmo certo con le mani in mano, e furono loro ad avere la peggio.

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Il Comandante Bardelli

Il Comandante Bardelli
Rara foto in divisa da Ufficiale della Regia Marina

Il Comandante Bardelli

Il Comandante Bardelli
A Nettuno, nel Btg. Barbarigo della Xa MAS

Il Comandante Bardelli

Il Comandante Bardelli
Assieme ai suoi marò del Barbarigo

Decima MAS

Decima MAS
Ufficiali del Btg. Maestrale (poi Barbarigo): Tognoloni, Cencetti, Posio, Riondino...

MAS a Nettuno affondano un Pattugliatore americano

MAS a Nettuno affondano un Pattugliatore americano
L'azione di Chiarello e Candiollo in copertina all'Illustrazione del Popolo del 19 marzo 1944