Sul n° 136 del mensile “Storia in Rete”, rivista spesso controcorrente e attenta ai temi dell’identità nazionale italiana, è presente uno “speciale” sul dramma delle Foibe e dai sempre più insistenti tentativi da sinistra – purtroppo talvolta con l’aiuto istituzionale e accademico – di “giustificare” o addirittura negare questa nostra tragedia tardivamente riconosciuta. Ringraziamo quindi Emanuele Mastrangelo e lo staff di “Storia in Rete” per l’autorizzazione a pubblicare questo stralcio dell’articolo di Lorenzo Salimbeni, una vera e propria serie di FAQ delle falsità giustificazioniste dei Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan, Wu Ming e dell'ANPI, e come smentirle.
Aggiungiamo inoltre una nota su "le altre foibe", quelle degli oppositori e "nemici del popolo" croati, sloveni e serbi stessi di Tito. Ben più numerose, e con evidenti e inconfutabili prove fotografiche dei massacri di massa. A dimostrazione che non erano esclusivamente i veri o presunti "crimini nazifascisti" ad alimentare questi eccidi, ma bensì il cinico e lucido progetto totalitario, espansionistico e repressivo di Tito, maturato sin dai suoi esordi politici negli anni '20, pianificato lucidamente e eseguito dal suo rodato braccio armato, ossia la polizia politica dell'OZNA.
«E di Huda Jama resta ancora la testimonianza di un uomo che all’epoca dell’eccidio guidava uno dei camion che trasportavano i prigionieri, rinchiusi nel campo di concentramento di Teharje nel loro ultimo viaggio. I camion trasportarono per sette notti consecutive le vittime davanti alla miniera, fino a quando questa non si è riempita di cadaveri.
A tenere viva la memoria di queste vittime ancora oggi di serie B ci pensa in Slovenia Mitja Ferenc, professore di storia alla facoltà di filosofia dell’Università di Lubiana nonché presidente dal 1990 della speciale commissione incaricata di scoprire ed esplorare tutti i luoghi delle carneficine dei titini. Un elenco lunghissimo che illustra la “geografia” del terrore che imperava in Slovenia . ("Il Piccolo", 4/3/2015)
Al termine dell'articolo, una serie di fotografie della Huda Jama e escavazioni forensi di fosse comuni in Slovenia (1999-2009).
Andrea Lombardi
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L’obbiettivo è sempre quello di sminuire il dramma delle Foibe e dell’Esodo. Gli argomenti sono noti: la repressione fascista, l’arroganza del nazionalismo italiano e poi i morti, pochi, per lo più fascisti e in numero simile a quanto registrato in altre parti. In fondo si era alla fine della Seconda guerra mondiale… Anche i metodi non sono nuovi: attacchi ad una fantomatica propaganda «neofascista», vecchi testi e dati ormai superati ma spacciati come le Tavole della Legge, contestualizzazioni «decontestualizzate». Il tutto condito da astio anti-italiano, un silenzio tombale sulle atrocità titine, un fastidio snob, molto ideologico e molto alla moda per tutto quanto è Patria. Ecco una replica, punto su punto, alle tesi di chi vuole cancellare uno dei grandi drammi italiani del Novecento.
Quando e perché
Sostiene la Bourbaki [nome di un collettivo antifascista molto attivo sulla questione Foibe e crimini partigiani]: “Nella presa di controllo del territorio da parte della popolazione locale (sia slovena e croata che italiana), ci furono indubitabilmente anche esecuzioni sommarie, ma va sicuramente considerato come queste furono una risposta ai crimini italiani nella regione che proseguivano da un ventennio (si noti come molti degli autori di questi atti vennero poi processati dagli stessi partigiani). Molti studiosi riconoscono che nel momento di sfaldamento dell’autorità seguente all’8 settembre ’43 si verificò una «jacquerie», una sorta di rivolta contadina, contro coloro che avevano detenuto il potere fino ad allora. L’insurrezione istriana – non dalmata – del 1943 ha poco a che fare con l’italianità o meno delle vittime, visto che erano italiani anche molti degli insorti. La violenza insurrezionale si rivolse contro la locale classe dirigente considerata compromessa con il fascismo e contro i possidenti. […] L’entrata dei partigiani a Trieste nel maggio del 1945 significò la liberazione dei prigionieri della Risiera di San Sabba, l’unico campo di concentramento nazista ora in territorio italiano dotato di forno crematorio.
Ricondurre la prima ondata di uccisioni nelle foibe istriane (avvenute contemporaneamente alle fucilazioni di italiani consumatesi a Spalato e in altre località della Dalmazia) ad un episodio di «jacquerie» è una tesi ormai superata: l’opera postuma di Elio Apih «Le Foibe giuliane» (Leg, Gorizia 2010, a cura di Roberto Spazzali) ha corroborato la chiave di lettura fornita a suo tempo dal professor Arnaldo Mauri, cioè che si è trattato dell’applicazione di una metodologia repressiva sovietica già sperimentata a Katyn a danno degli ufficiali polacchi fatti prigionieri nella campagna di settembre 1939, consistente nell’eliminazione delle figure di riferimento di una comunità nazionale e nell’azzeramento della sua classe dirigente, in maniera tale da lasciare i popoli in balia dei nuovi regimi comunisti, sovente privi di un vasto consenso. Inoltre nella Venezia Giulia gli opposti nazionalismi italiano e slavo, erano stati fomentati dalle autorità asburgiche nella fase finale dell’impero Austro-Ungarico secondo una subdola logica del divide et impera. Le mire espansionistiche slovene e croate nei confronti di quelle località della costa adriatica orientale in cui la maggioranza della popolazione era italiana, affondavano perciò le radici nella seconda metà dell’Ottocento e trovarono realizzazione non con il progetto di riforma trialista (cioè il progetto della creazione di un regno sloveno-croato all’interno dell’Impero asburgico) della compagine austro-ungarica a beneficio della componente slava, bensì dietro la bandiera rossa che l’esercito di Tito ostentava.
Gli italiani che furono partecipi delle violenze a danno dei propri connazionali, confermano il carattere di guerra civile che la Resistenza assunse ed in tale contesto avevano anteposto l’adesione ideologica al Comunismo all’appartenenza nazionale, laddove invece i loro «compagni» jugoslavi strumentalizzarono il Comunismo con finalità nazionaliste. Il nazionalcomunismo titoista incarnò, infatti, un progettò imperialista degli slavi del sud latente da tempo e che rivendicava territori in cui vi erano presenze slave (Carinzia austriaca, Friuli e Venezia Giulia italiane) nonché la trasformazione degli Stati confinanti balcanici (Albania, Bulgaria e Grecia) in satelliti di Belgrado, andando così a ledere la supremazia sovietica nell’Europa sudorientale. In questo progetto espansionista affondano le radici della rottura Tito-Stalin del 1948, ma le mire egemoniche titine così come gran parte delle epurazioni compiute a guerra finita rimasero sconosciute grazie alla spregiudicata politica estera del dittatore croato che di fatto, pur militando nelle logiche della Guerra Fredda fra i cosiddetti «Paesi Non Allineati», si rivelò un prezioso interlocutore per il blocco occidentale, che quindi silenziò qualunque ricerca e denuncia inerente le sue vessazioni.
Quanti
Sostiene la Bourbaki: “Ha scritto Internazionale il 10 febbraio 2016: “Secondo alcune fonti le vittime furono tra le quattromila e le seimila, per altre diecimila: ex fascisti, collaborazionisti e repubblichini, ma anche partigiani che non accettavano l’invasione jugoslava e cittadini qualunque”. Raffrontando queste cifre con il numero delle vittime delle violenze di fine guerra in altre zone d’Italia, si nota come il numero delle vittime non si discosti troppo da quello riscontrato altrove in Italia: il fenomeno si presenta dunque molto di più come una resa dei conti di fine guerra che come una violenza mirata contro gli italiani in quanto tali.
Secondo Giorgio Pisanò, certamente la fonte più dura e schierata sulle violenze dei partigiani, la Lombardia, che nel 1945 aveva circa sei milioni d’abitanti, a guerra finita vide ”rese dei conti” per complessivi ottomila morti. Altrettanti in Piemonte che aveva tre milioni e mezzo d’abitanti. Cinquemila morti si ebbero in Veneto, che aveva poco meno di quattro milioni d’abitanti. Dunque fra uno ogni 450 persone e uno su 850. La Venezia Giulia aveva circa un milione e centomila abitanti e solo nel 1945 vide almeno ottomila morti, fra infoibati e scomparsi nei lager jugoslavi. Uno ogni 140 persone. Una virulenza da tre a sei volte maggiore che in altre regioni dell’Alta Italia coinvolte nella Guerra Civile e nelle “rese dei conti” a conflitto terminato. […] Comunque che a guerra finita anche nel resto d’Italia vi siano stati episodi di giustizia sommaria e rese dei conti, non sminuisce certo l’impatto della tragedia rappresentata da foibe, deportazioni e campi di concentramento jugoslavi, anzi, dimostra la necessità di approfondimento, analisi e raccolta di testimonianze rilasciate da superstiti o loro congiunti. Il giustificazionismo che interpreta le foibe come risposta a violenze italiane (gran parte delle quali, per quanto odiose, attuate in tempo di conflitto ed applicando le leggi di guerra all’epoca vigenti ed alle quali si attenevano tutte le potenze belligeranti nelle forme di rappresaglie, campi di internamento e uso di ostaggi) non ha ragion d’essere in una comunità internazionale che si vorrebbe regolamentata dal diritto e dal senso di giustizia come quella che i vincitori della Seconda guerra mondiale intendevano istituire sulle macerie delle dittature sconfitte. Il carattere eccezionale delle stragi di italiani e di oppositori slavi del progetto totalitario di Tito risiede proprio nella coltre di silenzio che le ha avvolte per decenni, tanto da rendere necessaria l’istituzione di una Giornata del Ricordo dedicata a queste vittime.
Lorenzo Salimbeni
La rivista è disponibile in .pdf qui: http://www.storiainrete.com/11677/edicola/storia-in-rete-n-136-febbraio-2017/