Ancora oggi è molto radicata l’idea che cattolici e comunisti abbiano combattuto la guerra partigiana assieme per il medesimo obiettivo: riportare la democrazia in Italia. Eppure numerosi fatti, episodi e testimonianze sembrano dimostrare il contrario...
«Nella Resistenza ognuno aveva un progetto diverso. Nei comunisti, memori del leninismo della Grande guerra - quello della trasformazione della guerra in guerra rivoluzionaria - c’era l’idea di dare al conflitto uno sbocco, appunto, rivoluzionario. I comunisti avevano l’idea di prendere le armi per realizzare l’obiettivo di un regime sostanzialmente socialistico. Anzi, questo era l’obiettivo dello stesso Togliatti».
Stando così le cose, come hanno potuto convivere nella Resistenza ipotesi e idee così divergenti fra loro? A mezzo secolo di distanza qual è la spiegazione, al di là delle verità ufficiali?
«E semplice: nonostante le differenze cui lei accenna, il quadro politico di tenuta c’era. Esisteva una consapevolezza politica di Togliatti che veniva dalla sua esperienza maturata nella guerra di Spagna».
Che cosa c’entra la guerra di Spagna?
«Togliatti aveva fatto una riflessione autocritica: in Spagna i comunisti erano stati sconfitti anche perché avevano fatto una politica terroristica anticattolica. Lo stesso Togliatti aveva scritto su quest’argomento. Dall’altro lato, in ambito cattolico, c’era una forte inclinazione antifascista e antinazista. Il Vaticano soffriva da un lato della politica di Hitler che considerava pagana, e dall’altro - anche se solo in parte - della politica di Mussolini. Senza dimenticare, naturalmente, che Stalin era stato accreditato da Roosevelt nell’ambito di un’alleanza internazionale».
Tuttavia è innegabile che l’obiettivo ultimo dei comunisti era apparso chiaro a tutti fin dall’inizio della Resistenza...
«Non c’è il minimo dubbio. Basti pensare ai fatti di Porzus, dove le vittime furono partigiani antifascisti; poi vi fu la vicenda delle foibe, dove loro ammazzarono tutti quelli che non erano comunisti; e ancora, nell’immediato dopoguerra, il “Triangolo della morte” fu anch’esso fortemente anticattolico».
Ma allora perché, alla luce delle cose che lei ha appena detto, è ancora così forte l’idea del “patto antifascista”?
«La colpa è certamente della storiografia ufficiale che ha tramandato e tramanda una storia della Resistenza mitica, che lo stesso Giorgio Amendola aveva contrastato. Già negli anni ‘60 Amendola affermò che non bisognava dimenticare che i partigiani si sparavano tra loro».
Eppure, ancora oggi, un film come “Il partigiano Johnny” suscita scalpore...
«Certo: la Resistenza fu un convergere di diverse posizioni, ci furono fatti di sangue così come ci furono forti dissociazioni. Vede, il problema è che in Italia i fatti sono stati cancellati. Per esempio: perché si è proseguito ad una sommaria esecuzione di Mussolini, cosa che non era nei patti del CLN, che invece doveva consegnarlo agli Alleati per il processo? E la defenestrazione del capo del CLN, per opera dei comunisti, proprio alla vigilia della cattura di “Benito”?».
Una memoria occultata...
«La colpa è di molti storici; se la storia è scritta da quelli che facevano gli editoriali sull’Unità, beh... L’ingerenza dei comunisti nel campo dell’istruzione ha portato a dei manuali che sulla storia d’Italia, e in particolare sili fatti della Resistenza e del dopoguerra, hanno fatto un’enorme mistificazione».
Dunque quest’egemonia è ancora forte?
«I libri di storia non descrivono la Resistenza per ciò che è stata, ma raccontano che ci sono i comunisti che vogliono la democrazia e gli altri partiti che sono filoamericani e reazionari».
Sta pensando alla vicenda di Edgardo Sogno?
«Quella è una storia emblematica, figlia di qualcosa che viene da lontano. I comunisti hanno sempre demonizzato l’antifascismo senza i comunisti».
In che senso?
«Basti pensare all’Aventino, cioè, a quello che fu il vero atto di nascita dell’antifascismo. I comunisti, d’accordo con i sovietici, disertarono l’Aventino perché, come disse Gramsci al Comitato centrale, bisognava evitare “un governo dei ceti medi”. Per i comunisti, l’Aventino rischiava di portare un governo dei ceti medi quindi, nella loro ottica, meglio il fascismo che avrebbe portato ad una radicalizzazione prerivoluzionaria. Insomma, i comunisti hanno involgarito ogni atto dell’antifascismo e, per tornare a quanto dicevo prima, la responsabilità degli storici non comunisti è stata quella, ad esempio, di accettare quest’interpretazione dell’Aventino».
Dunque possiamo affermare che i comunisti si sono serviti dell’antifascismo per accreditarsi come partito democratico?
«Loro hanno pugnalato alla schiena l’antifascismo in due occasioni storiche: una è stata nel ‘24 con l’Aventino, l’altra è stata nel ‘39...».
Nel ‘39?
«Sì, perché, ancora oggi, c’è qualcuno che sostiene che la Seconda guerra mondiale è stata scatenata da Hitler e Stalin n’è stata la vittima...».
Non andò così?
«Scherza? La Seconda guerra mondiale fu scatenata da Hitler e Stalin assieme. L’invasione tedesca della Polonia avvenne il giorno dopo che il Soviet supremo ratificò il patto Hitler-Stalin di fine agosto. Hitler fu molto attento alle forme, e prima di dare esecuzione al patto con Stalin attese la ratifica del Parlamento sovietico. Quando, il 30 agosto, il Soviet ratificò l’accordo, il giorno dopo la Germania invase la Polonia».
Alcuni documenti, saltati fuori negli ultimi tempi, dimostrerebbero come il PCI puntasse, nell’immediato dopoguerra, al colpo di Stato in Italia. Questi documenti quanto possono modificare il giudizio sul cosiddetto “partito nuovo” di Togliatti? Quanto è credibile l’immagine del leader del PCI che torna in Italia e fonda un partito “nazionale e democratico”?
«Primo: quella della cosiddetta via italiana al comunismo è una leggenda, perché la svolta di Salerno fu dettata da Stalin in persona. Secondo: quella del partito nuovo, non era una grande originalità: pensi che ne parlava Lenin...».
E tutte le discussioni che ci furono nel PCI e il dibattito che ne scaturì?
«La verità è che Togliatti creò dei comitati unitari, tipo anni ‘30, dove c’erano diverse componenti, ma poi la struttura organizzativa era saldamente nelle mani dei comunisti. Così il “partito nuovo” di Togliatti, altro non fu che un grosso Comitato unitario, apparentemente aperto a tutti e senza discriminazioni, ma con una struttura di direzione fortemente centralizzata, secondo i principi del centralismo democratico. Quello che sto cercando di dire, è una cosa molto semplice: nel momento in cui c’è una struttura di tipo leninista a livello decisionale, il resto è una parata da Comitato unitario, da Comitato antifascista...».
Sarà anche così, però è proprio da lì che nasce l’idea di un PCI democratico, che avrebbe preso il potere solo con libere elezioni...
«Togliatti non aveva un progetto immediatamente rivoluzionario. La struttura parallela, che sarebbe stata successivamente creata, era nell’ipotesi dello scoppio di una guerra mondiale, nella quale i comunisti avrebbero dovuto appoggiare l’URSS. I comunisti italiani pensavano di arrivare al potere attraverso un’egemonia organizzativa. Lo stesso De Gasperi, in una lettera a Luigi Sturzo mentre era al governo con Togliatti, scrisse: “Io penso che i comunisti abbiano intenzione di impossessarsi del potere, di dar vita ad una dittatura comunista per via democratica”. In realtà De Gasperi avvertiva che il PCI, stava facendo un’azione di penetrazione nello Stato: il sindacato unitario, Togliatti che faceva un’azione nella magistratura... Insomma, loro pensavano di fare come in Cecoslovacchia, dove i comunisti attuarono quello che noi chiamiamo colpo di Stato. Un colpo di Stato che loro presentavano come un fatto democratico, perché formalmente ci fu una votazione del Parlamento con circa 70-80 deputati che si rifiutarono di ratificare il cambio della guardia. Ciò fu possibile perché c’era il comitato di agitazione sindacale che si era impossessato dei ministeri e prese deputato per deputato per fargli mettere la firma: chi non firmava decadeva. Era lo schema che aveva il PCI: agire attraverso un’organizzazione di massa che tenesse il controllo della piazza e influisse sulle decisioni dei rappresentanti ufficiali».
Lo storico Gianni Donno, consulente della commissione Stragi, parla della Gladio Rossa come di un peccato d’origine. Scrive Donno: “La Gladio Rossa rappresenta il vero vulnus (originario, costitutivo) della storia della democrazia repubblicana italiana”. E d’accordo?
«Si tratta di un giudizio. Piuttosto, per capire, bisogna mettersi dal punto di vista dei comunisti. Loro ritengono il terreno democratico infido, scivoloso. Da Togliatti a Berlinguer e fino a che non si è sciolto, il PCI ha vissuto e coltivato a sua volta l’ossessione del colpo di Stato. Per loro la democrazia in Italia è stata costantemente minacciata, DC e PSI non erano forze solide e, secondo i comunisti, potevano sempre finire nelle mani dei golpisti. In realtà, la democrazia in Italia è stata tenuta soprattutto da DC e PSI. Per questo i comunisti hanno sempre mantenuto un apparato organizzativo, militare e finanziario. Loro vivevano con le radio che erano sintonizzate sulle frequenze della polizia nell’attesa di intercettare i primi messaggi di colpo di Stato».
Dunque, in un certo senso erano i difensori della democrazia?
«Un momento. Dalla parte loro i comunisti hanno non solo mantenuto una struttura parallela, ma hanno anche alimentato tutta una cultura di doppio Stato i cui frutti, poi, si sono visti».
A che cosa si riferisce?
«Il brigatismo non nasce da alcuni giovinastri, ma da organizzatori che vengono dal mondo resistenziale, dalla capacità di organizzare l’apparato clandestino del PCI».
D’altra parte gli stessi fondatori delle BR ammettono l’influenza e il fascino, anche culturale, che il mito della “Resistenza tradita” esercitò su di loro...
«Non solo. Inoltre si appoggiarono alla struttura, innanzitutto cecoslovacca, che era quella con cui erano in rapporto anche i comunisti».
Vorrei farle notare, però, che una certa storiografia - accreditando lo scenario di un PCI diviso tra un Togliatti democratico e gradualista e un Secchia rivoluzionario - ha concluso che, avendo avuto la meglio Togliatti, la legittimità democratica del PCI non può essere messa in discussione...
«Si tratta di una cosa assolutamente non vera. Secchia era entrato in conflitto con Togliatti dopo il ‘53, cioè dopo la morte di Stalin, perché era andato a Mosca e aveva partecipato alla riunione dove le delegazioni di PCI e PCF furono informate da Malenkov e Kruscev che avrebbero dovuto cambiare anche loro, adeguarsi. Il Secchia che torna in Italia sa che lo stesso Togliatti è un po’ delegittimato.
Infatti, il leader del PCI ha sempre avuto un atteggiamento frenante sulla destalinizzazione, è sempre stato contro Kruscev e cercò di frenare le rivelazioni contro Stalin. Togliatti, non dimentichiamolo, negò sempre la veridicità del rapporto Kruscev che non fu mai pubblicato con Togliatti vivente. Non è vero che ci furono un Secchia “resistenziale” e un Togliatti “democratico”, in realtà Secchia era uno che cominciò a fare la fronda a Togliatti, ritornando da Mosca con la consapevolezza che anche a livello internazionale molti vecchi leader si avviavano al tramonto. La divaricazione Secchia-Togliatti è una cosa propagandistica».
Sta di fatto, però, che Secchia fu il vero artefice dell’apparato militare...
«Guardi che tutto quello che era l’apparato clandestino del PCI non era stato costituito di nascosto, all’insaputa o nonostante Togliatti, ma con Togliatti consapevole: per esempio, Massimo Caprara ricorda bene la vicenda di Schio...».
Si riferisce al dopo-strage di Schio, come la racconta Caprara nel suo libro L’inchiostro verde di Togliatti?
«Certo. Fu Togliatti, ministro della Giustizia, e non Secchia a proteggere gli autori della strage, (di cui abbiamo parlato diffusamente all’inizio di questo libro, NdA) e ad organizzarne la fuga in Cecoslovacchia: si è visto mai un ministro della Giustizia che organizza la fuga dei responsabili di una strage? Ecco chi era Togliatti».
E l’immagine di Togliatti antistalinista?
«Falsa anche quella: Togliatti è sempre stato un uomo del Comintern anzi, lui aveva una notevole considerazione di se stesso proprio come grande leader del movimento comunista internazionale».
Dunque, ha ragione Aldo Schiavone quando scrive che il PCI è stato una forza nemica del processo di democratizzazione?
«Togliatti è uno che si è mosso in un quadro democratico, ma se avesse avuto le mani libere la storia d’Italia sarebbe stata diversa».
Veniamo alla domanda cruciale: se è vero tutto questo, per¬ché non si è ancora arrivati a scrivere il libro nero del comunismo italiano?
«Nemmeno chi ha scritto il “libro nero” lo ha fatto e lo stesso Courtois è stato costretto all’autocritica. La verità è che c’è un buco nero enorme: la partecipazione dei comunisti italiani al libro nero non è cosa da poco, è un capitolo notevole».
Vogliamo provare a descriverla per sommi capi?
«E una storia che comincia con gli assassini in Urss. Pensi, sono trascorsi dieci anni da quando è morto Guelfo Zaccaria, che fu il primo a denunciare il massacro di 200 su 600 antifascisti a Mosca. E bene ricordare che, quando lui lo disse nel ‘63, tutti lo negarono, a cominciare dai comunisti italiani: solo ora questa verità è accettata. Poi c’è stata la guerra di Spagna, nel corso della quale i comunisti italiani e Togliatti in prima persona ebbero un ruolo rilevante: Togliatti era il commissario politico che dava ordini direttamente al governo spagnolo. Infine, c’è il capitolo dei massacri nel corso della Resistenza. Ho già ricordato due episodi per tutti: Porzus e le foibe».
Quella delle foibe, in particolare, è una vicenda emblematica...
«Fu Togliatti a dare l’ordine ai partigiani di indossare la divisa titilla, e la strage di Porzus, infatti, nacque proprio dalla circostanza che i partigiani non comunisti rifiutarono di farsi inquadrare dai titini. Inoltre, con Togliatti Guardasigilli c’è il boom delle stragi: da Schio alla Volante Rossa e fino al Triangolo dell’Emilia è con Togliatti ministro della Giustizia che le stragi raggiungono il loro punto più alto».
Però Togliatti fu anche l’uomo dell’amnistia...
«Un’altra leggenda. Togliatti non voleva l’amnistia per i fascisti. Il suo progetto era l’amnistia per le stragi compiute dai non fascisti. Poi, lui andò in minoranza in Consiglio dei ministri e il testo fu emendato: lo stesso Togliatti ebbe un giudizio critico, perché in quel momento era in difficoltà. L’amnistia, infatti, fu realizzata all’indomani delle elezioni per la Costituente, nelle quali Togliatti portò a casa un brutto risultato: il PCI arrivò terzo e il suo leader fu messo sotto accusa dalla direzione. C’è una coincidenza temporale tra le riunioni della direzione, nel corso delle quali Togliatti è costretto a fronteggiare le accuse interne, e le riunioni del Consiglio dei ministri sull’amnistia che sono del giugno ‘46. Il testo dell’amnistia è emendato attraverso varie riunioni fino a quella del 22 giugno, dove Togliatti dirà che “alcune conseguenze negative (in seguito all’esito del voto, NdA) già si sono avute: per esempio nel contenuto dell’amnistia, misura che il nostro partito ha approvato ma che avrebbe voluto contenere in limiti più restrittivi per i fascisti”...».
Sta dicendo che non si trattò di un provvedimento di pacificazione?
«Assolutamente no. Togliatti era contrario, fu messo in minoranza e non aveva in quel momento grandi capacità di contrattazione perché era sotto accusa nel partito».
Il dossier Mitrokhin è stata un’occasione persa dai postcomunisti per fare i conti con questa storia che è la loro storia?
«Loro non intendono affatto fare i conti con la storia».
Eppure dovrebbero essere i primi ad avere interesse a gettare un po’ di luce su quei fatti, non crede?
«Il congresso del 1991 (quello della trasformazione del PCI in PDS, NdA) fu presieduto dalla vedova di Togliatti, che fece un lungo discorso senza mai nominare Togliatti».
Questo che cosa vuol dire?
«Che fanno fare il discorso alla vedova di Togliatti, per sottolinearne la continuità, ma non vogliono fare i conti con il loro passato. Al congresso del Lingotto di Torino (l’ultimo congresso celebrato dai DS, partito precedente l'attuale PD NdA) la platea andò in delirio quando sul video comparvero Togliatti, Gramsci e Berlinguer. Da parte loro non c’è alcuna revisione: continuano a ritenere che in Italia Gramsci, Togliatti e Berlinguer abbiano sempre avuto ragione. Gli stessi storici francesi, quelli di sinistra per intenderci, affermano che il grande ritardo degli storiografi italiani è stato quello di aver sempre sopravvalutato la storia nazionale del PCI e sottovalutato il rapporto con il Comintern; hanno sempre fatto una storia del PCI come erede di Machiavelli, De Sanctis e Croce. Ma la verità è un’altra».