Gassate!
Del Boca, Mack Smith, la guerra italo-etiopica e l'uso dei gas
di Pierluigi Romeo di Colloredo
Quando
il due ottobre del 1935 le truppe italiane passarono il confine con l’Etiopia
varcando il fiume Mareb, numerosi esperti militari europei si affrettarono a
predire una nuova Adua, o, nel migliore dei casi, che le enormi difficoltà
logistiche non avrebbero consentito agli italiani il conseguimento di risultati
rapidi e brillanti ed era stato previsto che la guerra si sarebbe arenata
allungandosi per anni, se non addirittura sarebbe finita con una disfatta
italiana.
Allora
come oggi ad ogni guerra le redazioni dei giornali richiamavano in servizio
vecchi generali in pensione, presentati come esperti di strategia e tattica. E
allora come oggi le loro previsioni si presentarono quasi sempre completamente
sballate.
Riportiamo
ad esempio alcune citazioni di corrispondenti militari stranieri: così il Völkischer Beobachter, organo del
Partito nazionalsocialista il 14 luglio 1935 prevedeva che gli italiani
avrebbero fatta la fine di Napoleone in Russia; gli aeroplani si sarebbero
rivelati inutili poiché non c’è niente da
bombardare (Deutsche Allgemeine
Zeitung, 11 aprile ’35); il giornale svedese Dagens Nyeter del 5 settembre ’35 scrisse che
...Contro l’Abissinia nulla possono né i
gas [dunque anche un mese prima
dell’inizio della guerra c’era già chi parlava di gas!] né gli aeroplani né le armi moderne degli italiani....
A
guerra iniziata:
Dopo la stagione delle piogge tutto sarà
consumato. Gli italiani hanno perduto, è inutile negarlo (Jouvenal,
25 gennaio 1936).
Tra
i più scettici sul successo italiano furono i nazisti tedeschi: la volpe
teutonica era ancora avvelenata per l’uva austriaca sottrattagli
dall’intervento del Duce. Dopo la tensione tra Italia e Germania seguita
all’omicidio di Dollfuss nel ’34, Mussolini era detestato in molti ambienti
nazisti (si ricordi che oltre all’invio di un corpo d’Armata al Brennero
nell’estate del 1934, le grandi manovre del 1935 vennero tenute in Alto Adige):
il giornale delle SS Das Schwarze Korps
era decisamente filoetiopico ed antifascista; il giornale nazista non si
limitava a parteggiare apertamente per il Negus ma si burlava anche della
crociata civilizzatrice del Duce e
faceva dei pronostici velenosi sulle aleatorie probabilità degli italiani di
sconfiggere rapidamente le armate del Negus, pronostici poi sconfessati dai
fatti.
Naturalmente,
allora come oggi, rivelatesi fallaci le previsioni catastrofiste, si disse poi
che gli italiani avevano vinto grazie alla superiorità dei mezzi ed all’uso di
armi proibite dalle leggi internazionali, e così via.
La
batosta presa dagli abissini spinse gli inguaribili antifascisti ed
anti-italiani a giustificare il bruciante insuccesso del negus ricorrendo alla
storiella dell’uso dei gas, che avrebbe messo in crisi gli eroici combattenti
etiopi.
Premettiamolo
subito: gli italiani usarono i gas, e li utilizzarono molto più spesso di
quanto la pubblicistica post-bellica di destra abbia voluto ammettere. Errore
grave quello del negare l’uso dell’iprite, tanto da dare credito ad una
propaganda di segno opposto, sovente grottesca nel falsare la realtà ben più di
quella di matrice neofascista.
Sull’argomento
si è passati infatti da una totale negazione ad un’acritica adesione alle tesi
della propaganda etiopica sull’uso indiscriminato dei gas.
Dapprima
i lavori dell’inviato del Giorno (spacciato
usualmente per storico professionista, ciò che non è mai stato) il novarese Angelo
Del Boca, poi di autori britannici quali Mockler (Haile Selassie’s War, I, The
War of the Negus, tradotto non si sa perchè in italiano, ma che essendo uno
dei pochi lavori in inglese sull’argomento è troppo spesso utilizzato da autori
anglofoni come fonte) e l’indefinibile Denis Mack Smith nel suo pessimo Le guerre del duce fecero assurgere a
verità di fatto le più strampalate leggende che la propaganda abissina,
attendibile quanto un bollettino di guerra napoleonico, potesse concepire.
Cominciamo
a vedere quali sono i fatti.
Per
quanto riguarda l’uso dei gas asfissianti, la richiesta del maresciallo Badoglio
(che non va dimenticato, s’era formato in gran parte durante la guerra 1915- 18, in cui i gas furono
utilizzati normalmente) di utilizzare aggressivi chimici allo scopo di
accelerare le operazioni belliche, richiesta accolta dal Duce solo in casi
eccezionali per supreme ragioni di difesa
(DEPA, Tel. Mussolini A.O.,
segreto, n. 14551), è da ritenersi una
decisione profondamente errata: sotto il profilo militare, perché non recò
alcun effettivo vantaggio; sotto il profilo politico perché diede l’occasione
di screditare le forze armate e, quindi l’Italia, a tutti coloro che all’estero
avevano disapprovato il conflitto, come scrisse il generale Bovio già direttore
dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.
L’utilizzo
di gas diventava addirittura una stupidaggine, e di quelle grosse, quando il
loro impiego era così limitato da non produrre alcun sostanziale vantaggio
militare: ma abbastanza diffuso da tirarci addosso tutte le conseguenze
negative di un fatto che necessariamente prescindeva dalla “quantità”.
Spesso
si è attribuito quasi un significato politico
all’uso delle armi chimiche, tralasciando di notare come non si fece impiego
dei gas nella prima fase della campagna, sotto il comando del fascista e
quadrumviro della Rivoluzione De Bono, che pure, come comandante del IX Corpo
d’Armata, nel 1918 usò i gas contro gli austriaci sul Grappa con la compagnia
chimica X, ma a partire dal dicembre del 1936, sotto quello del tecnico Badoglio (e, in Somalia, di
Graziani, che fascista non fu mai, neppure durante la R.S .I.). Mussolini diede sì
l’autorizzazione all’uso delle armi chimiche, ma su richiesta di Badoglio in
qualità di Comandante superiore e di Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito,
sul quale come s’è visto, faceva pieno affidamento per la parte operativa della
campagna. Furono usate bombe all’iprite e, sul fronte sud, anche fosgene.
Si
è affermato che vennero usati anche proiettili a gas sparati dai pezzi da
105/8, secondo il sistema in uso nella guerra del 1915- 18.
Va
ricordato che all’epoca i gas non erano considerati una mostruosità, ma quasi
come un’arma più umana e meno crudele
di quelle convenzionali.
Per
chi era uscito dalla prima guerra mondiale i gas erano un’arma come un’altra,
ed adirittura preferibile ad altre, in quanto poteva fiaccare il morale
avversario senza essere necessariamente sempre letale[1].
Il
generale Fuller, uno dei maggiori innovatori britannici in campo strategico
scriveva nel 1923 nel suo The Reformation
of War:
...uccidere non è l’obbiettivo della
guerra. Se quest’assunto è accettato, allora, dal momento che un bagno di
sangue è antieconomico, un tentativo dev’essere certamente fatto per sviluppare
quei mezzi che possano costringere un avversario a modificare la sua politica
sconfiggendo il suo esercito senza spargimento di sange. La guerra dei gas ci
consente di farlo, in quanto non c’è nessuna ragione per cui i gas impiegati
come armi debbano essere letali (...)
Il gas... è per eccellenza l’arma della
demoralizzazione, e poichè può terrorizzare senza necessariamente uccidere, più
di ogni altra arma conosciuta può servire ad imporre in modo economico la
volontà di una nazione ad un’altra.
Non
furono solo gli italiani ad usare aggressivi chimici. Gli inglesi usarono i gas
nel 1931 a
Sulainam, in Irak, per sopprimere il capo curdo Karim bey, reo dell’uccisione
di due funzionari britannici e ancora nel 1935 in Afghanistan, lungo
la frontiera con l’India, contro tribù pathane ribelli.
Va
poi ricordato che una nave statunitense piena di aggressivi chimici venne
affondata nel porto di Bari nell’ottobre del 1943 dalla Luftwaffe. Per una migliore comprensione storica il comportamento
degli italiani in Etiopia andrebbe quanto meno contestualizzato nel quadro
della condotta coloniale dell’epoca.
Angelo
Del Boca si è spesso vantato d’esser stato il primo a portare a conoscenza del
pubblico italiano l’impiego delle armi chimiche, ma ciò non risponde a verità.
Il Del Boca del resto può venire accusato di tante cose, dalla
selettività nella scelta degli argomenti alla faziosità, ma certo non di falsa
modestia: si pensi che giunse a
scrivere, parlando del proprio libro del 1965, che avrebbe a suo dire suscitato ampi consensi da parte della stampa
democratica [sic, per di sinistra e d’area comunista] e, di riscontro, la violentissima reazione degli ambienti
nazionalfascisti (Del Boca 1984, p.432; subito dopo il giornalista
piemontese cita opere di vari autori, quasi tutti di un solo orientamento). Si
tratta di un passaggio autoreferenziale davvero inconsueto, per di più nel
testo e non in una nota a piè di pagina, la cui lettura è assai istruttiva per
comprendere il personaggio. Naturalmente Del Boca si guarda bene dal citare le
critiche alla sua metodologia di ricerca ed alla selettività sulla scelta delle
fonti e del loro utilizzo (si vedano le parole dedicate al giornalista da due storici professionisti, Luigi Goglia e
Fabio Grassi nel loro Il colonialismo
italiano da Adua all’Impero, Roma- Bari1981, p.425: e si tratta di autori certo
non sospettabili di simpatie nazionalfasciste)
Che durante la guerra d’Etiopia si fossero usati i gas era invece noto
già da prima dei lavori di Del Boca, malgrado le sue millanterie; basti citare la testimonianza di Paolo Caccia
Dominioni sui bombardamenti sul Mai
Tonquà del gennaio ’36. Intorno al giorno 22 gennaio sul Mai Tonquà , sotto l’Amba
Tzellerè, l’aviazione aveva impiegato i gas asfissianti per la prima volta;
testimonia Caccia Dominioni:
Gli aerei hanno avuto, se così si può
dire l’ala pesante. E non soltanto con bombe e mitraglia. Numerosi cadaveri non
portano tracce di ferite (…). Sono giunte, con gli ascari, anche squadre
dette di disinfezione, specializzate.
Hanno ordine di non perdere tempo questi seppellitori: debbono far scomparire
subito le tracce di quanto è successo.
Giuseppe Bottai, tenente
colonnello della divisione Sila, annota
a sua volta nel proprio diario, alla data del 5 febbraio dello stesso anno:
(…) Precauzioni: non raccogliere
le bombe inesplose dei nostri aeroplani, che si trovassero sul terreno e le
schegge di bombe, che potrebbero essere ipritiche (…) [2] .
Circolavano
inoltre fotografie scattate da soldati italiani di morti per i gas [3], che
vennero sicuramente mostrate al ritorno dalla guerra ad amici e familiari in
Italia.
Se
realmente dunque gli aggressivi chimici fossero stati usati in maniera
massiccia come preteso dagli etiopi e da certi storiografi se ne avrebbero
molte più testimonianze, mentre molti soldati italiani poterono ignorarne l’uso
in perfetta buona fede[4].
Ciò
è ricordato anche da Luigi Goglia:
a questo proposito (il fatto che i combattenti ignorassero l’uso dei gas
asfissianti) è stato notato da altri, ma
anche chi scrive ne ha fatto diretta esperienza intervistando reduci di quella
campagna, che l’uso dei gas era ignorato
allora dai più (ancora oggi molti sono increduli)[5]
Basti
dire che malgrado fotografie e filmati realizzati durante la campagna siano
numerosissimi e ben noti, in nessuno è visibile un solo soldato italiano
equipaggiato con portamaschere modello 1933 o 1935, cosa impensabile se davvero
i gas fossero stati usati nelle quantità pretese dal giornalista novarese.
Anche
il duca Luigi Pignatelli della Leonessa si era occupato dell’uso dei gas prima
del giornalista novarese e con ben altra obiettività, scrivendo che:
Dobbiamo ritenere (e a Ginevra non lo
smentimmo) che nel corso della campagna fu fatto talvolta uso, dai bombardieri
italiani, di bombe all’iprite. L’impiego di questa terribile arma, che con
altre simili e peggiori era stata largamente utilizzata da entrambe le parti belligeranti
nella guerra 1914- 1918, fu limitato a particolari casi e se non mancò di avere
effetto psicologico, fu ben lontano, come è ovvio, dall’agire risolutivamente
sulle sorti della campagna. Sconsigliato a suo tempo dagli ufficiali esperti
della guerra coloniale, fu, senza alcun dubbio, un inutile errore.
Un racconto anche sommario del conflitto
italo etiopico, non può, in ogni modo, prescindere dal registrare
obiettivamente il fatto, il quale non è destituito d’importanza[6] .
Come
si vede, che i gas fossero usati non è certo una scoperta di Del Boca...
Il
giornalista britannico Anthony Mockler, visto che non poteva attribuire ai gas
italiani i massacri di cui si è favoleggiato, arrivò a scrivere nel suo Haile Selassie’s War, I, The War of the
Negus, che
Il gas
costituiva un grosso problema, ma
causava più spavento che danni (…)
Anche quando i gas arrivavano a contatto della pelle, le scottature potevano
essere evitate. Ras Immirù aveva
avvertito i suoi uomini di “lavarsi sempre”[7].
Addirittura nel suo pamphlet
sulle guerre del Duce Denis Mack Smith ( che il maggior storico del
Risorgimento, Rosario Romeo, inserì nella categoria degli storici definiti Italy’s haters, lett. Odiatori dell’Italia) sulla base di due articoli di Del Boca, apparsi su Il Giorno del 12 e del 14 novembre 1968 arriva
a scrivere di
...ordini espliciti di Mussolini che imponevano
all’esercito di ricorrere se necessario, ad ogni mezzo, dal bombardamento degli
ospedali all’impiego “anche su vasta scala di qualunque gas” e addirittura alla
guerra batteriologica .
Va detto che Del Boca nelle sue opere ha avuto il buon senso di
omettere accenni all’uso di armi batteriologiche, di cui l’Italia non
disponeva. Programmi di ricerca in tal senso furono sviluppati dagli inglesi
nel 1925 e dai giapponesi nel 1932; gli statunitensi iniziarono ad occuparsene
nel 1941, e i tedeschi solo nel 1943[8].
Elementare buon senso che purtroppo è stato recentemente buttato nella
spazzatura da giornalisti incompetenti in un pamphlet sulle armi non convenzionali
usate dagli italiani.
Anche gli altri ordini citati dallo storico britannico non esistono:
anzi, riguardo al bombardamento degli
ospedali in un telegramma del Duce a Badoglio del 1 gennaio ‘36 si fa
esplicitamente divieto di bombardare la Croce Rossa :
[V.E.] dia ordini tassativi
perché impianti croce rossa siano dovunque e diligentemente rispettati: [9].
Mack
Smith giunse a scrivere che Mussolini aveva deciso di attaccare l’Etiopia
riservandosi come obiettivi successivi l’Egitto e il
Sudan e magari anche il Kenya.
Il
che vuol dire credere che Mussolini fosse totalmente pazzo o non aver capito
niente della visione sostanzialmente conservatrice della politica estera
italiana sino alla guerra di Spagna; Mussolini temeva semmai che gli inglesi
potessero attaccare dal Sudan le forze impegnate contro gli abissini, tanto che
il 12 aprile del 1936 raccomandò a Badoglio di studiare eventuali misure
difensive. Il Maresciallo incaricò di tale studio il gen. Babbini.
Si
parlò dello studio delle possibilità di un’azione difensiva verso il Sudan come copertura per la missione di Badoglio
e Lessona nell’ottobre del 1935, ma, come scrissero Indro Montanelli e Mario Cervi
nel loro L’Italia littoria,
...De Bono (…) non era
sciocco al punto di bere questa panzana.
Mack
Smith evidentemente sì.
Ma
lasciamo adesso Mack Smith e torniamo al Dalai lama dell’anti-imperialismo
italiano, al fustigatore del colonialismo tricolore.
Del
Boca fa naturalmente da grancassa alle chiacchiere della propaganda etiopica
sugli apocalittici effetti dei gas asfissianti. Il buon Del Boca riporta
diligentemente le dichiarazioni di ras Cassa di grande drammaticità che non si
possono negare al lettore:
Il bombardamento era al colmo quando,
all’improvviso, si videro alcuni uomini lasciar cadere le loro armi, portare
urlando le loro mani agli occhi, cadere in ginocchio e poi crollare a terra.
Era la brina impalpabile del liquido corrosivo che cadeva sulla mia armata.
Tutto ciò che le bombe avevano lasciato in piedi, i gas l’abbatterono. In questa
sola giornata un numero che non oso dire dei miei uomini perirono. Duemila
bestie si abbatterono nelle praterie contaminate. I muli, le vacche, i montoni,
le bestie selvatiche fuggirono nelle forre e si gettarono nei precipizi. Gli
aerei tornarono anche nei giorni successivi. E cosparsero di iprite ogni
regione dove scoprirono qualche movimento.
Una
piaga biblica... Evidentemente gli uomini di ras Cassa non avevano acqua per
lavarsi… né risulta che a causa dei gas sia deceduto un solo ascaro, un solo nazionale,
un solo mulo italiano.
Ora,
se è vero che i gas tossici furono certamente impiegati in misura assai
maggiore di quanto ammise l’ex ministro delle colonie Michele Lessona, in
realtà le armi chimiche non influirono in maniera rilevante sulle operazioni
militari, così come non furono decisivi nella Grande Guerra.
Questa
è anche l’opinione di Luigi Goglia che pur ricordando come l’uso dei gas non
solo a scopo di rappresaglia sia ricordato nel Diario storico del Comando
Supremo AOI , ma scrive che
da parte etiopica si è forse voluto
sopravvalutare l’importanza dei bombardamenti a gas fatti dagli italiani[10]
Del Boca- ovviamente- accetta in
toto le affermazioni del ras, arrivando a scrivere, a giustificazione delle
melodrammatiche affermazioni di Cassa Darghiè sulla brina impalpabile ecc.
che
l’iprite sinora era stata lanciata
soltanto in grossi bidoni e non irrorata con speciali diffusori .
Il che è una tra le tante (troppe) sciocchezze sparse nel libro del
giornalista novarese: i gas venivano lanciati con le bombe C.500T, che
esplodevano ad un’altezza di 250
metri spargendosi poi per ellisse di 500 m per 100, e non diffusi
con irrogatori.
Angelo Del Boca dedicò ampio spazio all’argomento della guerra chimica
(cui dedicò un successivo volume, I gas di
Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia pubblicato dalla casa editrice
del partito comunista italiano, e recentemente ripubblicato). Approfittando del
prolungato e colpevole silenzio ufficiale sull’argomento la realtà venne
deformata, parlando di migliaia, o
addirittura centinaia di migliaia di
morti.
Del Boca si affida per sostenere le sue tesi soprattutto a fonti
abissine e a testimonianze di giornalisti anti-italiani che, ad esser generosi,
si possono definire quantomeno di dubbia attendibilità.
Per quanto riguarda l’affidabilità della testimonianza di ras Cassa si
può citare come esempio:
A Choum Aorié (...) le cento
mitragliatrici che furono prese là, caddero nelle nostre mani senza l’aiuto del
fucile, ma solo con quello delle sciabole. Nessuna forza di terra avrebbe
potuto arrestare i miei uomini che sembravano passare fra le raffiche. Essi
piombavano così rapidi sugli italiani che gli strappavano dalle mani il fucile (…) dinanzi a tali demoni, gli italiani, non
conservando che i loro pantaloni appesi alle cinture, sparivano come la polvere
.
Ovviamente, gli italiani durante la guerra d’Etiopia non persero mai
cento mitragliatrici, nè in una sola giornata e nemmeno in tutto il conflitto.
Come si vede, voler scrivere la storia della guerra d’Etiopia basandosi su
queste fonti è come voler scrivere la storia della prima Crociata basandosi su
Torquato Tasso. Però Del Boca finge di crederci...
Il
fatto che siano stati realmente usati i
gas non deve nascondere che molto di quello che scrissero allora i giornalisti
(poi ripreso da certi autori) fosse frutto di psicosi e di propaganda
assolutamente non basata sulla realtà. Ewelyn Waugh (Del Boca riesce a sbagliarne nome e cognome,
chiamandolo Evelyne- che è un nome
femminile!- Waught) ricorda che la notte
tra il due ed il tre ottobre del 1935 i giornalisti di Addis Abeba erano in
preda al timore dei bombardamenti italiani, aggiungendo che di certi
corrispondenti si racconta che giocarono
a poker tutta la notte indossando le maschere antigas [11]. La
psicosi dei bombardamenti e la propaganda anti italiana nei primi giorni di
guerra è ben evidenziato dall’episodio grottesco delle corrispondenze sul
bombardamento e la distruzione dell’ospedale di Adua, distruggendolo ed uccidendo molte donne e bambini, e dove sarebbe
morta un’infermiera volta a volta svedese od americana, della quale si davano
anche il nome, ed una descrizione che in realtà variava anch’essa di volta in
volta, come l’età, una bella signora alta un metro e settanta, di trentadue
anni, descrizioni che variavano a secondo che “testimoni” fossero un greco che conosceva bene il posto, un
architetto svizzero sposato ad una mulatta od un pilota di colore americano cui
l’infermiera avrebbe offerto una cioccolata proprio cinque minuti prima del
bombardamento. Lo stesso Haile Selassie rimase colpito e turbato dalla tragica
fine dell’infermiera.
In
realtà non erano mai esistiti né l’ospedale né la crocerossina martire, come
ben presto Waugh ed i suoi colleghi avevano capito:
Quando cominciammo a cercare di
raccogliere particolari sull’accaduto, ci nacque il dubbio che forse ad Adua non
c’era mai stato nessun ospedale. Di certo non esisteva un ospedale etiopico, e
le unità della Croce Rossa non erano ancora arrivate fin lassù; quanto alle
missioni, non sapevano nulla di un loro
ospedale ad Adua, né i Consolati sapevano di loro connazionali che vi fossero
occupati.
I
giornalisti furono costretti a rispondere alle pressione dei propri giornali
per avere notizie:
Ben presto cominciarono ad arrivare
cablogrammi da Londra e da New York: “Richiediamo al più presto nome biografia
fotografia infermiera americana saltata aria”. Rispondemmo: “Infermiera non
saltata aria” e dopo qualche giorno la cosa aveva già cessato di fare notizia: Waugh. Pignatelli scrive a proposito di
quest’episodio: La stampa internazionale,
nella quale contavamo in quel tempo ben pochi amici non ci risparmiò le sue
rampogne, esagerò anzi i racconti
dell’episodio, indicando gli italiani come massacratori di popolazioni inermi.
Ancor
oggi taluni storici continuano a parlare del bombardamento di Adua e del suo
ospedale. Il lettore forse non si stupirà nello scoprire che tra tali autori vi
siano Del Boca ed il buon Mack Smith.
Ma
torniamo ai gas. Si è già ricordato come il primo uso di gas avvenne solo nel
dicembre; ma la propaganda etiopica aveva già iniziato a parlarne prima della
guerra, così che poi le denunce in proposito che vennero propalate da Addis
Abeba vennero prese per vere (e lo sono tuttora) senza alcuna verifica! In
molti casi morti di colera vennero spacciati per vittime delle armi chimiche,
così come foto di lebbrosi vennero diffuse come di vittime dell’iprite[12].
L’iprite
non sfigura i volti come la lebbra; né le fotografie di veri morti per iprite
mostrano tracce di deformazioni simili.
Va
ricordato come la concentrazione minima dell’iprite debba essere di un decimo
di grammo per metro cubo d’aria:, ragion per cui. se si desiderasse appestare
un quadrato di quattro chilometri di lato, alto una ventina di metri, anche
questo piccolissimo valore darebbe pur sempre un peso totale di trentadue
tonnellate, più quello dei contenitori o dei proiettili necessari.
Un
bombardiere italiano del 1936 poteva trasportare sui cinquecento o mille chili
di bombe: ne sarebbero occorsi non meno di una sessantina per un modesto raid
che si proponesse il limitato obiettivo che c’è servito di calcolo e di
semplicissimo esempio.
L’iprite
è un gas estremamente persistente, perché non è solubile in acqua: il suo
effetto può durare per delle settimane, addirittura mesi, rendendo
impercorribili le zone in cui si è depositata, tanto che nella Grande Guerra
veniva usato per inibire al nemico le avanzate e per favorire le ritirate.
Proprio questa persistenza rendeva l’uso del gas estremamente difficile: in caso
d’avanzata, occorreva prendere speciali precauzioni per la salvaguardia delle
proprie truppe[13].
Né
si deve dimenticare come bastasse un minimo di vento per disperdere subito la
nuvola mortale: per cui la velocità del vento stesso, sulla base delle conclusive
esperienze della prima guerra mondiale, non doveva mai superare i quattro o
cinque metri al secondo. Ma se non ce n’era del tutto, la nuvola non si formava
neppure. E queste due condizioni limite
sono, alla fine, piuttosto rare: quando si verificavano, potevano non durare
abbastanza a lungo. E se anche duravano, bisognava vedere qual era la velocità
di spostamento dell’avversario. Se era legato ad un sistema di trincee, che non
doveva e non poteva abbandonare, è una cosa: ma se si trovava in rasa campagna,
non legato a una posizione fissa, era un’altra cosa.
Il
sottosegretario di Stato all’Aeronautica, generale Giuseppe Valle, in una sua relazione sulle operazioni in
A.O.I., scrisse a proposito dell’aleatorietà dell’azione aerea in un simile
contesto operativo:
Data la grande distensione del fronte,
la vastità del territorio e l’assenza di centri vitali, il nemico dal punto di
vista aereo poteva dimostrarsi organismo amorfo. Truppe non
acquartierate e radunate in località non certo determinabili come nei paesi
civili, ma aggruppantesi qua e là attorno ai vari capi. I movimenti erano
effettuati poi in piste pochissimo note con una suddivisione minuta degli
armati che andavano verso punti di concentramento di difficile definizione.
Tutto ciò rendeva nullo ed esasperante il compito dell’aviazione.
A
passo Uarieu- per fare un esempio tra i tanti, visto che il Del Boca sostiene
che la vittoria italiana non sia dovuta all’eroica resistenza della Milizia
contro forze venti volte superiori, ma all’uso dell’iprite- quindi, se davvero vi fosse stato un impiego
massiccio dei gas, anche volendo ammettere che le trenta bombe lanciate sul
Ghevà fossero ipritiche, a pagarne le maggiori conseguenze sarebbero state
paradossalmente le Camicie Nere assediate all’interno del forte.
Gli
italiani, si dice, saturarono i fronti avanti alle loro truppe di nuvole di
gas: tuttavia è certo che non fu presa nessuna speciale precauzione quando si
trattò di andare all’inseguimento, come fecero le Camicie Nere di passo Uarieu
e gli ascari di Vaccarisi.
Eppure
le truppe indigene, che marciavano a piedi nudi, erano particolarmente esposte
alle conseguenze della presenza di gas, così come vi erano esposte le truppe
nazionali, in una regione dove l’acqua scarseggiava, e bisognava pur bere.
In
realtà non è vero nulla. La ritirata etiopica fu causata dalla sconfitta
militare, causata dalla strenua ed inaspettata resistenza della 28 Ottobre e delle Camicie Nere del I°
gruppo, che avevano trattenuto le truppe di ras Cassa sino all’arrivo della 2a
divisione eritrea.
Tutte
le testimonianze sono concordi nel confermare che i primi nuclei di prime forze
abissine avevano iniziato a ritirarsi nella serata, ma che i combattimenti si
protrassero anche la mattina del 24 e che la rotta avvenne quando comparvero
gli ascari e le camicie nere inviate in soccorso dei difensori.
Ras
Cassa pretese invece che i suoi guerrieri fossero stati gasati mentre
conducevano l’attacco al forte, quindi a ridosso delle posizioni italiane:
oltre che smentita dai fatti, la versione abissina è inverosimile dal punto di
vista tecnico.
L’iprite
è un gas a carattere molto persistente, adatto ad inibire al nemico le zone
possedute, manifestando la propria azione tossica molto lentamente, fissandosi
al terreno ed alle cose anche per molti giorni e usato nella guerra 1914- 1918
proprio per favorire le ritirate, inibendo l’avanzata del nemico.
Esattamente
l’opposto di quanto avvenne a passo Uarieu, ma come probabilmente fu fatto sul
Ghevà, ripetiamo, se davvero le trenta bombe C.500T lanciate il 23 gennaio
fossero state caricate a gas, per bloccare l’afflusso di rinforzi abissini.
Tale possibilità va doverosamente ricordata, anche se la cosa tuttavia non è certa, dato il rifiuto di Aymone Cat di
ordinare l’uso dei gas.
Del
resto, come è sempre pronto ad i ingigantire (od ad inventare tout court) crimini fascisti, veri, presunti o supposti,
il Del Boca si dimostra invece ben più comprensivo verso le violazioni delle
leggi di guerra da parte degli etiopici.
Come
è noto gli abissini fecero costantemente uso di proiettili esplosivi (le
pallottole dum dum) il cui uso era
proibito dalle convenzioni internazionali.
Tale
fatto è totalmente taciuto dagli autori che invece si dilungano sugli i
attacchi coi gas moltiplicandoli in maniera irresistibilmente comica.
Addirittura Del Boca arriva a scrivere che si trattava di proiettili di piombo dolce: ennesima falsità (fingendo
di ignorare che le pallottole a piombo dolce sono anch’esse proibite dalle
convenzioni internazionali) perché gli etiopi usavano proiettili forati, o dum dum. Un esempio tra i tanti:
L’ultima delle mitragliatrici
conquistate, una Vickers Armstrong, è nuova e moderna, testimonia Sandro Sandri, uno dei migliori
corrispondenti di guerra della storia del giornalismo italiano (morì in Cina in
uno scontro tra cinesi e giapponesi nel 1937)
...Nel nastro di canapa che vi è infilato,
ogni venticinque cartucce, normali, ve ne sono dieci forate all’estremità. Le
classiche dum dum che quando colpiscono provocano orrendi squarci di difficile
guarigione e il più delle volte mortali...
Le
pallottole dum dum utilizzate dagli abissini erano prodotte
dalle ditte Société Française des
Munitions, Kynoch Witton Limited di Birmingham e Eley Brothers ltd di Londra.
Ma
nello zibaldone di Del Boca si cercheranno invano questo tipo di testimonianze,
che non collimano con le idee del giornalista novarese. Se la verità va contro
la sua tesi, tanto peggio per la verità. Al limite la si bolla come revisionismo...
Per
concludere, un accenno ad un episodio marginale della campagna, ma che è utile
per comprendere il metodo di lavoro e la selettività di Del Boca. Ci riferiamo
al massacro del cantiere Gondrad di Mai Lahlà.
Nelle prime ore di venerdì 13 febbraio seicento abissini (ma secondo
alcuni autori erano molti di più) al comando del fitaurari Tesfai, sottocapo del degiacc
Aialeu Burrù, assalirono di sorpresa il cantiere n.1 della ditta Gondrad presso
Mahi Lahlà, totalmente indifeso, massacrando e seviziando tra sessantotto ed
ottantacinque operai e tecnici civili, italiani ed eritrei, tra cui il
capocantiere, ingegner Rocca, la moglie di questi, Lidia Rocca Maffioli, forse uccisa dal marito per evitare che venisse
stuprata e seviziata, la cameriera tigrina della signora, ed il vicedirettore
del cantiere, l’ingegner Roberto di Colloredo Mels. Tra i morti non c’era un
solo militare.
I corpi, compresi quelli delle donne, furono mutilati.
Gli operai ed i tecnici dl cantiere si erano difesi furiosamente, ma
senza possibilità di successo.
Il vicedirettore dei lavori, l’ingegnere
Roberto di Colloredo Mels, conte del Sacro Romano Impero, aveva avuto la
fortuna di trovarsi fuori dalla zona investita; avrebbe potuto mettersi in
salvo, scrisse Paolo Caccia
Dominioni. Ma era un friulano di generoso
ardimento, tenente d’artiglieria da montagna in congedo, erede di una
tradizione vecchia di nove secoli. E’ accorso in aiuto del suo direttore,
ingegnere Cesare Rocca, di sua moglie Lidia Rocca Maffioli, e degli operai, ma
invano. Prima di essere ucciso con tutti gli altri ha potuto far pagare a caro
pezzo la carneficina: giacevano, attorno al suo cadavere mutilato, otto morti
abissini.
Roberto di Colloredo ebbe la
medaglia d’argento al valor militare alla memoria. Ci piace ricordarlo con la
definizione data di lui nella lapide affissa nel liceo classico Stellini di
Udine, da lui frequentato: Milite del
Lavoro.
Sul massacro di Mai
Lahlà i bollettini etiopici arrivarono a scrivere:
Ras Immirù segnala dal fronte nord che
il 13 febbraio un distaccamento delle nostre truppe ha attaccato un fortino
nemico (…) I nostri hanno sconfitto il nemico che si è dato a precipitosa fuga
verso la frontiera lasciando sul terreno 412 morti e qualche prigioniero
(Bollettino del Quartier Generale etiopico, Dessiè, 23 febbraio 1936)
Del Boca sostenne sempre a spada tratta la tesi di etiopica che si sia
trattato di un atto legittimo di guerra, tacendo accuratamente l’eccidio e le
sevizie inferte ai prigionieri. Il modo in cui tratta l’episodio nel suo
zibaldone è esemplare della selettività del Del Boca: il santone
dell’anticolonialismo italiano non spreca una parola che possa porre l'accento
sulla gravità del comportamento abissino, una sola menzione nel testo,
virgolettata, delle sevizie, in compenso ampio spazio viene dedicato alle
rappresaglie italiane, allo sfruttamento della strage da parte della propaganda
fascista, eccetera. Addirittura cita- sottoscrivendola- una dichiarazione di
ras Cassa che giustifica il comportamento degli abissini le cui mogli e figli erano stati atrocemente ustionati dai gas, si
erano vendicati dei loro selvaggi aggressori massacrando un campo di operai tra
il Mareb e Darò Taclè! Viene da chiedersi cosa direbbe l’autore novarese,
ex partigiano (ed ex ufficiale repubblichino della Monterosa) se qualcuno giustificasse la strage di Marzabotto con il
bombardamento al fosforo di Amburgo.
Nel
corso di una trasmissione televisiva sulla terza rete Rai, nel 1998, il Del
Boca presentò i filmati dell’eccidio di Mai Lahlà per
immagini di vittime delle
rappresaglie italiane ad Addis Abeba. Roberto di Colloredo, biondo e
friulano, difficilmente poteva essere confuso con un etiope... ma Del Boca in
completa malafede confuse vittime e carnefici per sostenere la sua propaganda,
che di storico ha solo il nome e l’avallo di una certa sinistra che, pretende
di far cultura, ma fa solo cattiva divulgazione.
Ma
la cosa peggiore è che oltre ad Angelo, da qualche anno è spuntato anche il
figlio, Lorenzo, autore di (brutti) lavori anti risorgimentali i cui titoli
parlano da soli (Indietro Savoia, Maledetti
Savoia, Grande Guerra piccoli
generali).
Di
padre in figlio.
Come
in Corea del nord...
[1] Filippo Cappellano,
Basilio di Martino, La Guerra dei gas, Valdagno 2006, p.7.
[2] G. Bottai,
Diario 1935- 1944, Milano 1982, p.8 6;
il corsivo è di Bottai.
[3]
Mignemi Immagine coordinata per un impero,
Novara 1984, fig.269, 305, con didascalia sul retro colpito dalla liprite [sic].
[4] I. Montanelli,
M. Cervi L’Italia littoria, Milano 1979,
p.295.
[5] L. Goglia
Storia fotografica dell’Impero fascista,
Roma- Bari 1985, p.18 n.20.
[6]
:Pignatelli, La Guerra dei sette mesi, Milano 1965, p.238.
[7] Mockler, A., 1972, Haile Selassie’s War, I, The War of the Negus, Oxford (tr. it. Milano 1977)
[8] D. Tschanz “A Short History of Biological
Warfare”, Strategy and Tactics 216
(May/ June 2003)., pp.17 segg.
[9] DEPA,
tel. Mussolini AO, segreto
n. 005.
[10] Goglia 1985, p.10.
[11] Waugh When
the going was good, London
1946 (tr. it. Milano 1996), p.409.
[12] Incredibilmente Mack
Smith le prende per vere: Mack Smith 1976, p.97
[13] Pierluigi
Romeo di Colloredo, I Pilastri del romano
impero, Genova 2009, p. 106.